“[…] Volevo raccontare tutto, tutto quanto, senza ipocrisia o paura di espormi sul tema.
Gli uomini sono vittima di body shaming (deridere qualcuno per il suo aspetto fisico), gli sono socialmente imposte delle norme comportamentali che escludono la possibilità di poter esternare sensibilità, debolezza, “eccessiva” dolcezza e quando vengono meno nel rispettarle sono derisi e paragonati a delle “femminucce”.
Non sono creduti se molestati e stuprati perché considerati “delle bestie” sempre disposte ad avere rapporti sessuali (difettose se non riescono nell’intento di conquistare almeno una partner) e quindi impossibilitate a negare ciò che fa parte della loro “natura”, in paesi come l’Italia non gli è concesso il congedo parentale ed è loro compito ritornare immediatamente a lavorare (il suicidio sul posto di lavoro raggiunge dei picchi stellari per il genere maschile) e anche quando sarebbero i più idonei non gli spetta quasi mai l’affidamento dei figli, che va alla madre perché tipicamente contemplata come “nata” per questo incarico.
Stereotipi di genere, cattiverie, realtà: questo è ciò ho voluto raccontare. Ma non solo.
La cosa più importante che volevo denunciare, tra le tante cose che sono qui narrate, è che il sessismo colpisce INDISTINTAMENTE TUTTI QUANTI e per questo va combattuto senza farsi la gara a chi è più discriminato tramite l’unione e la solidarietà reciproca”.
Misandria, questa sconosciuta
Questi sono il video e le parole di Maria Sofia, instagram, una ragazza di 15 anni.
Ed è da qui che voglio partire, dal racconto di Maria Sofia, per affrontare il tema della misandria, la cui definizione sul Treccani online dice:
Avversione morbosa per il sesso maschile
Il video di Maria Sofia mi ha fatto riflettere, così ho deciso di approfondire l’argomento.
Dalle mie ricerche sono emersi soprattutto due dati.
Il primo è che 4 anni fa l’Accademia della Crusca lanciava una petizione per inserire l’aggettivo misandrico/a nel dizionario della lingua italiana.
Sì, nella lingua italiana non esiste il contrario dell’aggettivo misogino/a: la misoginia indica un sentimento di avversione verso il genere femminile, mentre l’avversione verso il genere maschile è definito misandria.
La misandria però manca della forma aggettivale nella lingua italiana, per cui se chi detesta le donne si chiama misogino, chi invece disprezza gli uomini non può essere classificato perché il termine misandrico/anon esiste ufficialmente.
Non è anche questa discriminazione di genere?
Un altro dato interessante è che l’aggettivo misandrico/a è invece presente nei dizionari di moltissime altre lingue: in francese “misandre“, in inglesemisandrist“, in tedesco “männerfeind“, solo per citarne alcune.
Studi italiani sulla misandria
Il secondo dato emerso dalle mie ricerche è che non ho trovato studi, tesi, articoli accademici in italiano che trattassero la misandria.
Probabilmente mi sbaglio. Forse non ho cercato abbastanza. O forse no.
Per l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la violenza è:
l’uso intenzionale della forza o del potere fisico, di fatto o come una minaccia, contro se stessi, un’altra persona o un gruppo o una comunità, che causa o ha un’alta probabilità di causare lesioni, morte, danno psicologico, disturbi dello sviluppo o privazione
Misoginia e misandria si riferiscono alle diverse manifestazioni di violenza (fisica, psicologica, sessuale, economica e patrimoniale, simbolica, di genere) espresse da un genere verso l’altro all’interno di un contesto.
È importante partire dall’idea che in quanto esseri umani, indipendentemente dal genere, si possa ricadere nel ruolo di vittima o aggressore secondo schemi di riferimento specifici, i modelli culturali e le situazioni sociali in cui l’individuo si sviluppa.
È altrettanto importante considerare che sia gli uomini sia le donne hanno la capacità di essere vittime o aggressori.
Una premessa fondamentale è che, quando si parla di violenza nel contesto guatemalteco, le donne vengono visualizzate in automatico come vittime e gli uomini come aggressori.
Lo studio guatemalteco sulla misandria
A mio parere, l’importanza del primo studio è stata quella di ricercare la visibilità dei due concetti di misandria e misoginia ancora poco conosciuti nel contesto guatemalteco, e che rimangono ancora oggi uno stereotipo.
Lo studio ha identificato e descritto le principali manifestazioni e caratteristiche della violenza di genere negli adolescenti, e ha evidenziato la loro difficoltà di riuscire a visualizzare la violenza come fenomeno che fa parte della comunità.
Secondo il rapporto presentato dall’Istituto nazionale di statistica del Guatemala (INE) nel 2014, quando si parla di violenza di genere, il discorso è tutto incentrato sulle donne.
Le denunce fatte per violenza contro il genere maschile provengono esclusivamente da persone anziane e riguardano la violenza domestica sui bambini maschi.
Il campione della ricerca
Il campione prescelto per la ricerca è composto da 91 ragazzi e ragazze di età compresa tra 4 e 17 anni. Tra loro ci sono 42 studenti di liceo. Tutti sono di origine urbana e rurale, ladini, di religioni diverse, con un livello socioeconomico medio.
Nel contesto di crescita di questi giovani i ruoli culturali di uomini e donne sono molto radicati: l’uomo lavora fuori e la donna rimane a casa con i bambini, mentre i ragazzi possono avere attività extrascolastiche come giocare a calcio o uscire con gli amici.
I giovani guatemaltechi hanno difficoltà a riconoscere il ciclo della violenza, provano disagio nell’esprimere affetto verso coetanei dello stesso sesso e hanno idee molto radicate sul ruolo culturale e sociale che i due sessi hanno nella loro società.
Inoltre, questi giovani stanno crescendo in un contesto che abbraccia costumi, tradizioni e abitudini in cui la violenza è ricorrente e sistematica, in cui le donne sono state inquadrate come vittime che la subiscono nelle sue diverse espressioni a causa dell’esistenza di una cultura patriarcale della società.
La violenza e le sue modalità di manifestazione sono cambiate nei decenni, ma per la maggior parte dei ragazzi è difficile ammettere di essere oggetto di abusi, soprattutto per i maschi, a causa della cultura patriarcale del loro ambiente.
Cosa è emerso dallo studio sugli adolescenti
Una parte della ricerca si è soffermata esclusivamente sugli adolescenti tra i 12 e i 17 anni.
Dalle loro risposte ai questionari è emerso che:
giustificano la violenza domestica come una malattia mentale
vedono il consumo di alcol come un fattore che predispone a violare gli altri
sentono i comportamenti violenti come qualcosa di innato nell’essere umano che non può essere controllato, li descrivono come una reazione a una provocazione, giustificando l’aggressività come una forma di difesa
cercano ragioni esterne per le manifestazioni di violenza in famiglia
non accettano che i familiari possano essere violenti per natura
trovano giustificazioni alla violenza domestica affermando che sia una forma di disciplina e di autorità
darsi queste giustificazioni li rende in qualche modo liberi di osservare e/o praticare la violenza senza sentirsene responsabili
La maggior parte degli adolescenti ha difficoltà ad accettare che nel loro ambiente sociale la violenza di genere è un fenomeno costante, riconoscono però che ci sono molti casi di violenza intorno a loro. Riferiscono che la violenza familiare si verifica in classi sociali diverse (dalla loro) e affermano che non è un loro problema.
Collegano specificamente la violenza di genere alla violenza sessuale, manifestano una difficoltà nel valutare gli atti aggressivi che avvengono all’interno di ambienti vicini a loro.
I risultati rivelano la loro resistenza a prendere coscienza della realtà che esiste all’interno del proprio ambiente culturale, il che a sua volta rallenta la responsabilità che ogni individuo deve assumersi per prevenire e intervenire nelle manifestazioni di violenza di genere.
L’ultima parte del test rivolto agli adolescenti contiene domande che cercano di valutare il riconoscimento degli atti di violenza da parte dei partecipanti e la loro responsabilità in queste situazioni.
La violenza e la famiglia
È comune tra loro affermare che sono soprattutto donne e bambini a essere vittime di atti violenti, i quali vengono perpetrati come atti di correzione per comportamenti inaccettabili all’interno dei loro diversi ambienti familiari e sociali.
Tuttavia, un’alta percentuale riconosce che le persone non amano essere maltrattate, nemmeno se lo si fa “per il loro bene”.
Alcuni dei partecipanti hanno lasciato intendere di essere vittime di violenza all’interno delle loro case, perché nella loro comunità di riferimento urla, insulti e percosse sono mezzi usati da molti genitori e coniugi per controllare comportamenti indesiderati sia nei figli sia nei partner.
I ragazzi ritengono che l’abuso emotivo sia grave quanto quello fisico, riconoscono che quando c’è violenza in famiglia non può esserci amore, ma che è molto comune sentire i genitori giustificare l’aggressività come mezzo di disciplina.
Secondo la ricercatrice Angela Cuervo:
“La casa è un ambiente facilitante per comportamenti pro-sociali, la convivenza emotiva percepita dall’adolescente caratterizzata da affetto e supporto emotivo, insieme alla stimolazione dell’autonomia, sono predittori pro-sociali.
Le dinamiche familiari alterano le norme, i valori, la comunicazione e la soluzione dei conflitti familiari e si riflettono nelle relazioni sociali nell’ambiente adolescenziale”
Le reazioni dei genitori alle situazioni e come risolvere i conflitti giocano un ruolo importante nello sviluppo socio-emotivo dell’individuo.
Nella società guatemalteca la violenza è parte della struttura culturale all’interno della quale le risposte agli atti di violenza sono represse e inibite, offrendo giustificazioni per coloro che danneggiano gli altri.
In diverse comunità c’è una tolleranza generale all’abuso, a volte accettato come risposta normale a una situazione specifica.
La sottomissione delle donne è una realtà della vita quotidiana sia nella cultura guatemalteca che in altre.
La misoginia è un dato di fatto creato, consolidato, incoraggiato e accresciuto all’interno della società, nella quale si rafforza costantemente il ruolo della donna come vittima e dell’uomo come aggressore.
All’interno del gruppo di adolescenti analizzato è stato identificato lo stereotipo vittima femmina e aggressore maschio, evidenziando la difficoltà della visione culturale a riconoscere la donna come aggressore e l’uomo come vittima.
Nonostante per i ragazzi sia chiaro il concetto che ogni essere umano ha la capacità di attaccare o la debolezza di essere attaccato, tende tuttavia a scontrarsi con la percezione radicata in loro, che vede la violenza come qualcosa di estraneo a loro e identifica eventi forti come stupri, rapine o morte come aggressione, concentrandosi sulla violenza criminale.
I membri del campione hanno espresso difficoltà nel riconoscere un ciclo di violenza, perché percepiscono il concetto di violenza di genere come qualcosa di estraneo alla loro realtà, che include atti forti come stupro, aggressione o morte, e resistenza a vedere il fenomeno come qualcosa che accade all’interno delle case della loro comunità.
Infine, i ragazzi hanno detto che tra di loro coetanei ci sono manifestazioni di violenza, che vanno dall’aggressione verbale alle percosse tra di loro.
Giovani, adulti, misoginia e misandria
Il secondo studio, invece, studia un totale di 600 soggetti. Di questi, il 41,6% erano uomini e il 58,4% donne.
L’età media era di 26 anni.
Il 36,6% aveva completato gli studi liceali, il 26,9% dall’istruzione secondaria, il 23,6% dalla formazione professionale e l’8,2% dall’università (il resto delle percentuali era molto residuale).
Il campionamento è stato casuale, non rappresentativo, utilizzando un gruppo di sondaggisti, studenti dell’Università di La Coruña. Tutte le interviste sono state condotte nella città di La Coruña.
L’obiettivo dell’indagine è multiplo. In primo luogo, vorrebbe determinare se esiste un atteggiamento di rifiuto nei confronti della misandria, poiché sia questo che il maschilismo dovrebbero essere considerati atteggiamenti discriminatori.
L’ipotesi degli studiosi è che il machismo (per machismo si intende un’eccessiva esibizione di virilità dovuta alla convinzione che il maschio sia superiore alla femmina) sarà rifiutato più della misandria, e che anche la misandria sarà considerata un atteggiamento positivo, poiché è un modo per dimostrare all’altro che uno non è macho.
Il secondo obiettivo è determinare se è possibile differenziare le caratteristiche che definiscono il machismo dalla misandria.
Infine, si vuole verificare se esistono differenze nelle variabili dei ruoli sessuali tra coloro che si pongono a favore e contro il machismo, nonché tra coloro che si pongono a favore e contro la misandria.
L’ipotesi dei ricercatori è che non si troveranno differenze negli aspetti sopra citati, cosicché sia la misandria che il maschilismo saranno associati a variabili che tendono a discriminare in base ai ruoli sessuali.
Metodo di analisi
Sono stati selezionati due spot televisivi, uno considerato il più macho, l’altro il più misandrico tra una serie di pubblicità.
Poiché il primo pubblicizzava una compagnia di assicurazioni e il secondo un marchio di caffè, agli stessi soggetti è stato chiesto di scegliere un altro spot per ciascuno dei prodotti pubblicizzati, ma che non aveva nulla a che fare con questioni di ruoli di genere.
In questo modo sono stati scelti due annunci di assicurazioni (uno classificato come macho) e due per il caffè (uno classificato come misandrico).
Ai soggetti della ricerca è stato detto di aiutare a valutare le strategie aziendali, quindi volevamo determinare quali annunci fossero i migliori per i prodotti pubblicitari.
Ogni soggetto ha iniziato compilando i dati sociodemografici di un questionario, quindi è stato mostrato il primo video e ha risposto al test differenziale semantico che ha valutato quel video. Quindi è stato mostrato il secondo video dello stesso prodotto ed è stato applicato di nuovo il differenziale semantico, e lo stesso con i due video dell’altro prodotto.
Dopo aver risposto alle valutazioni dei video, a ciascun soggetto è stata applicata la batteria di test relativi ai ruoli sessuali.
Dopo aver completato la raccolta dei dati, ogni partecipante è stato informato del reale oggetto dello studio ed è stata richiesta l’autorizzazione per avere i propri dati. Nessuno ha rifiutato.
Conclusioni dello studio
Lo studio ha consentito di trarre una serie di conclusioni:
– I dati raccolti mostrano che non ci sono differenze tra i sessi dei partecipanti
– I soggetti rifiutano sia la misandria che il maschilismo, ma la misandria è più accettata. Preoccupa il fatto che quasi il 17% dei soggetti mostri un atteggiamento positivo nei confronti della misandria, anche se è altrettanto preoccupante che il 9% delle persone valutate difenda atteggiamenti a favore del machismo
– La misandria è più vicina al modo di pensare di ogni persona (ideologia) e produce più simpatia e convinzione. Al contrario, il machismo produce umiliazione e rabbia
– Le persone che esprimono un atteggiamento a favore della misandria si distinguono per la loro alta femminilità o apprezzamento degli aspetti espressivi del comportamento, ma d’altra parte hanno un’idea maschilista delle relazioni di coppia, difendendo generalmente una cultura dell’onore, cioè vale a dire l’esistenza di rapporti di coppia possessivi e con la subordinazione delle donne a favore degli uomini. Questa idea di subordinazione non include l’universo del lavoro, poiché è accettato che le donne svolgano ruoli non tradizionali.
Inoltre, rifiutano la violenza
– Un atteggiamento maschilista implica chiaramente la legittimazione della violenza.
Dallo studio spagnolo emerge che donne e uomini accettano il concetto di misandria come quello di misoginia. Cioè, si dicono convinti che esista la violenza delle donne sugli uomini, salvo poi avere un’idea maschilista del rapporto di coppia, nel quale la donna è comunque subordinata all’uomo.
Conclusioni mie
C’è molta confusione. Qualcosa si muove. Come esseri umani tentiamo di sradicare i nostri paradigmi mentali storici e tradizionali, ma c’è ancora tantissima strada da fare.
Soprattutto in Italia, a quanto pare. Dove il concetto di misandria è pressoché sconosciuto.
Cosa possiamo fare nel concreto?
Di certo aprire il dibattito, aprire il dialogo, soprattutto con gli adolescenti e i giovani. Si può essere d’accordo o no, ma il video di Maria Sofia è un buon inizio.
Sono gli adolescenti e i giovani, dopotutto, quelli che cambieranno il mondo, quelli che possono renderlo migliore, anche per noi.
Se hai domande sull’approfondimento contattami sui canali social di Valory, sarò felice di risponderti e di avere uno scambio di opinioni.
Oppure, scrivi le tue riflessioni, i tuoi dubbi, le tue domande nei commenti qui sotto.
Mi chiamo Marco Gastaldi, ho 24 anni amo il digital e il mio sogno è quello di utilizzarlo per amplificare l’inclusione sociale nel mondo della disabilità.
Sono una persona curiosa e appassionata anche di sport, ho infatti partecipato ad attività di “Vela senza barriere” organizzate dall’Associazione Sportiva Dilettantistica “Andora Match Race”.
Come Valory Reporter non mi fermo mai e sono alla continua ricerca di personaggi che possano ispirarmi e nasce qui l’intervista a Giusy Versace, atleta paralimpica, vincitrice di numerosi titoli italiani nell’atletica leggera, primatista europea, finalista 200m alle Paralimpiadi di Rio2016, conduttrice televisiva e politica italiana.
Ecco a voi le risposte di Giusy in merito alla Sua storia personale e sulla Sua associazione “Disabili no limits”.
Ammiro molto il Suo impegno per far conoscere il mondo della disabilità, per sollecitare il mettere al centro la persona nella sua globalità, nel creare reali possibilità di integrazione e di valorizzazione. Sul suo profilo Twitter cita una frase di San Francesco: ”Cominciate a fare il necessario, poi ciò che è possibile e all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile”.Com’è nata l’idea di creare l’associazione “Disabili no limits”?
– La Onlus nasce 10 anni fa nel momento in cui mi sono resa conto che lo Stato non copre la spesa di ausili e dispositivi di tecnologia avanzata che consentirebbero a tante persone con disabilità di migliorare la propria autonomia. Organizziamo eventi per promuovere lo sport come terapia strumento di inclusione sociale ma al tempo stesso raccogliamo fondi per donare protesi e ausili tecnologicamente avanzati e che oggi lo Stato non concede. In sintesi, cerchiamo di regalare un sorriso e nuove opportunità di vita.
Spesso si sente parlare di resilienza come soft skill, ricercata in ambito lavorativo ma non solo. Cos’è per Lei questa qualità, come la definirebbe?
– In sostanza la resilienza è quella capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi e questo concetto viene poi utilizzato anche per descrivere l’atteggiamento di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. La nostra capacità di reagire ad eventi ci rende più o meno forti. E’ un lavoro anche e soprattutto mentale che chiunque può fare. Molto dipende anche dalla forza di volontà.
Per una persona disabile è importante ambire alla realizzazione di un proprio “progetto di vita” che non si limiti solamente ad un puro assistenzialismo nelle azioni fisiche quotidiane ma che vada a coinvolgere anche altre sfere della vita, come ad esempio quella sociale e lavorativa. A Suo avviso, lo Stato come potrebbe garantire alle persone con disabilità questo diritto, affermato a livello legislativo ma spesso di difficile realizzazione concreta?
– In verità il diritto ad una piena inclusione sociale dipende molto dall’approccio culturale di una società e noi, sotto questo aspetto, abbiamo ancora molto da fare. Basterebbe che lo Stato desse il buon esempio lavorando meglio e di più per garantire quei diritti già proclamati dalla stessa Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità. Il tema vero è che non bastano le leggi, serve un lavoro più complesso e quotidiano di tutta la popolazione perché la società sia più inclusiva. Ha notato quante volte si incontrano barriere architettoniche in molti edifici e su molte strade nonostante ci siano leggi che ne chiedano l’abbattimento ? Quante volte i parcheggi dedicati a titolari di contrassegno disabili sono abusivamente occupati da gente arrogante e superficiale che non rispetta chi ha invece diritto a quel posto ? Come vede le leggi non sono la soluzione, serve più cultura e sensibilizzazione.
Secondo Lei quanto è importante per una giovane persona disabile avere una passione da coltivare come ad esempio un hobby o uno sport da praticare? Pensa che questo possa essere un valido strumento di integrazione sociale, al fine di mettere un diversamente abile in una condizione che sia “alla pari” di una persona normodotata?
– Su questo tema con me si sfonda una porta aperta. Lo sport, lo dicevamo prima, rappresenta decisamente uno strumento di inclusione sociale. Per molte persone con disabilità rappresenta anche solo la banale scusa di uscire di casa, opportunità di confronto e di miglioramento personale non solo fisico, anche e soprattutto mentale.
Crede che un canale di comunicazione responsabile come ValorY possa aiutarei giovani a creare un mondo più inclusivo? In che modo?
– Certamente. Non se ne parla mai abbastanza, la gente è troppo spesso distratta e superficiale su queste tematiche, dunque serve continuare a parlarne e sensibilizzare soprattutto i più giovani ad atteggiamenti più rispettosi e inclusivi. Basterebbe raccontare in modo intelligente le storie di chi ce l’ha fatta, di chi non ha mollato e non ha rinunciato a sorridere alla vita, di chi ha saputo rialzarsi e reinventarsi. I ragazzi hanno bisogno di esempi belli e sani. La vita non è facile per nessuno, a prescindere da come ti chiami o dal ruolo che ricopri; la differenza la facciamo noi in base a quanta dose di coraggio e determinazione impieghiamo. Difficile non vuol dire impossibile, ma solo difficile. Ed io voglio essere fiduciosa, certa che prima o poi l’approccio culturale nei confronti di chi vive con qualche difficoltà in più possa solo migliorare.
Sicuramente la storia di Giusy Versace rappresenta un forte esempio di resilienza e di forza di volontà nell’ adoperarsi per la tutela dei diritti delle persone con disabilità. La piena inclusione sociale dei disabili è possibile e dipende non solo dalle leggi promulgate ma dalla loro effettiva attuazione e dalla cultura di una nazione. A mio avviso, la strada da percorrere per un’inclusione sociale e lavorativa completa è oggi ancora lunga, ma questo obiettivo potrà essere raggiunto in futuro se tutti daranno il proprio contributo.
Giovani e tempo libero in un anno di pandemia: vincono la resilienza e la serendipità
Secondo uno studio pubblicato da International Data Corporation il mercato dei videogiochi, nel 2020, è cresciuto del 20% rispetto al 2019, con un fatturato pari a 197.7 miliardi di dollari.
Le restrizioni a cui tutti ci siamo dovuti abituare a causa della pandemia di Covid-19 hanno determinato dei cambiamenti radicali nella nostra quotidianità.
Anche in quella dei giovani, che hanno dovuto trovare delle alternative alle uscite con gli amici, ai viaggi, alle cene romantiche o al panino al pub il sabato sera.
Hanno dovuto reinventare il loro tempo libero.
L’indagine dell’osservatorio Next Gen Lab di Cimiciurri, la media agency creativa dedicata alle nuove generazioni, a cui hanno partecipato 6553 giovani tra i 13 e i 35 anni, ha evidenziato le attività preferite dai giovani da fare a casa e i videogiochi non sono al primo posto. Anzi.
Il 70% di loro ha apprezzato particolarmente le maratone di film e serie tv. A queste è seguito l’uso dei social, che ha interessato il 64% degli intervistati.
Quindi la musica, per il 48%, i videogiochi, per il 42%, lo sport in casa, per il 40%, e la lettura, per il 38%.
La tv e i servizi di streaming in abbonamento
Per i giovani tra i 13 e i 35 anni la tv ha rappresenta il mezzo d’informazione più usato nel corso della pandemia. L’87% di loro, infatti, ha dichiarato di preferire la tv come strumento d’informazione.
Se ne trova conferma anche nella ricerca condotta dall’Osservatorio “Giovani e Futuro” di MTV, che evidenzia l’uso della tv da parte del 77% dei 1000 giovani intervistati tra i 16 e i 30 anni.
Il dato interessante è che i giovani vedono la televisione come un’attendibile fonte d’informazione: il 62% del campione, infatti, concorda sulla sua affidabilità.
La stessa ricerca evidenzia, inoltre, come il 66% dei giovani dichiari di usare le piattaforme di streaming televisivo a pagamento.
Lo stesso vale per l’indagine dell’osservatorio permanente Next Gen Lab di Cimiciurri in base a cui gli abbonamenti per lo streaming televisivo rappresentano, dopo le videochiamate, il servizio più usato dai giovani tra i 13 ed i 35 anni, esattamente per il 73%.
Quello che piace di più è senz’altro la possibilità di selezionare i contenuti e definire liberamente il proprio palinsesto sulla base di abitudini e gusti personali.
Inoltre, un trend molto diffuso tra i giovani è il binge watching, cioè guardare serie TV in streaming senza interruzione tra i differenti episodi.
Tra i gruppi di amici è altrettanto diffuso il binge racing, guardare tutti gli episodi di una serie TV senza interruzioni e nel minor tempo possibile, tutti insieme, mettendo in atto una maratona televisiva che li occupa per un considerevole intervallo di tempo.
I giovani, i social e le fake news
Ma c’è un dato ancora più interessante: l’indagine di Mtv sottolinea come solo il 18% dei giovani tra i 16 e i 30 anni reputa i social network affidabili come fonte d’informazione, mentre l’83% li ritenga inaffidabili a causa delle frequenti e diffuse fake news, considerate come
“un reale problema che necessita di un controllo”
La reale convinzione dei giovani riguardo l’inaffidabilità dei social network è confermata anche dall’indagine condotta da Laboratorio Adolescenza su un campione di adolescenti tra i 14 e i 19 anni. Questi, per il 71,8%, dichiarano
“imprecise e di difficile valutazione le notizie presenti sui social” (Laboratorio Adolescenza, 2020)
Le applicazioni di messaggistica istantanea e i social
Rilevanti in modo straordinario per i giovani sono le applicazioni di messaggistica istantanea.
I giovani, infatti, hanno incrementano in maniera esponenziale l’uso di queste app. Diffusissime le videochiamate su Messenger, Whatsapp e Instagram: l’81% ricorre alle videochiamate, sia singole sia di gruppo (Osservatorio Giovani e Futuro di MTV, 2020).
Grande popolarità hanno acquistato le dirette live su Instagram e Tik Tok, che vengono paragonate a veri e propri programmi televisivi di cui il giovane pubblico costituisce parte integrante. Un modo per continuare a sviluppare le proprie relazioni sociali in forma virtuale condividendo attimi di vita quotidiana, diffondendo hashtag e lanciando sfide originali ai propri follower.
I videogiochi
Anche l’uso dei videogiochi, graditi dal 42% dei giovani oggetto d’indagine, è molto apprezzato. Secondo l’analisi di Trovaprezzi.it i principali fruitori di videogiochi sono i giovani tra i 25 ed i 34 anni, e non gli adolescenti.
La solidarietà e la resilienza dei giovani
Il dato in assoluto più straordinario è la maratona di solidarietà che si è creata tra i giovani in un anno di pandemia.
Tantissime le iniziative, ne cito solo due:
– Viral Veneto: un progetto Instagram di Veronica Civiero, che amplifica le notizie ufficiali che riguardano l’epidemia, attraverso il supporto di influencer del territorio.
– Arrivo io!: l’applicazione, creata da 3 giovani informatici, mette in contatto i negozi che fanno consegne a domicilio e i potenziali clienti per incentivare le persone a rimanere a casa. L’app consente una ricerca su base geografica di diverse attività commerciali da parte dei consumatori interessati e permette loro di accordarsi direttamente con l’esercizio in questione.
Straordinaria anche la partecipazione dei giovani alle raccolte fondi, come ad esempio quella lanciata da Chiara Ferragni e Fedez a favore dell’ospedale San Raffaele di Milano, che ha visto donare ben 200mila giovani per un importo superiore a 4 milioni di euro.
O quella a sostegno dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, realizzata da un diciannovenne bolognese che ha raggiunto 100mila euro in un solo giorno.
Il giovane, in un’intervista rilasciata a “BolognaToday”, ha detto che l’età media dei donatori è stata inferiore ai 30 anni, rimarcando il senso di responsabilità e lo spirito d’iniziativa caratteristici dei giovani.
Nella stessa intervista, il ragazzo, alla domanda sul perché abbia lanciato questa raccolta fondi, ha detto di essere stato spinto dal desiderio di rendersi utile e dalla volontà di fare la propria parte in un momento così delicato.
Un anno di pandemia ci ha mostrato quanto sono resilienti i giovani, capaci di adattarsi al cambiamento in atto. Certo, non senza contraccolpi, ma chi attraversa un cambiamento senza abbattersi un po’?
Conclusioni e serendipità
Hai mai sentito parlare di serendipità?
Sulla Treccani online c’è scritto questo:
Il termine serendipità sta a indicare la capacità o fortuna di compiere per caso felici ed inattese scoperte le quali non hanno alcuna relazione con ciò che si stava cercando, ovvero con quanto ci si proponeva o si pensava di trovare.
A mio parere i giovani italiani sono straordinariamente ricchi di serendipità!
Intraprendenti, resilienti, volenterosi, con un grande spirito di iniziativa e un considerevole senso di appartenenza, “capaci di costruire il futuro dalle sfide della realtà” (Versari, 2020)
Se hai domande sull’approfondimento contattami sui canali social di Valory App, il 1° social responsabile che sostiene i giovani, sarò felice di risponderti e di avere uno scambio di opinioni.
Oppure, scrivi le tue riflessioni, i tuoi dubbi, le tue domande nei commenti qui sotto.
Dove sono gli adolescenti? La voce degli studenti inascoltati nella crisi. Lo studio di Save The Children
Secondo l’ONU, la pandemia ha causato
“La più grande interruzione dei sistemi educativi della storia, interessando quasi 1,6 miliardi di studenti in più di 190 paesi in tutti i continenti”
In Italia la chiusura delle scuole è iniziata il 23 febbraio 2020 in alcune regioni del nord, e si è poi estesa all’intero territorio nazionale dal 5 marzo 2020.
Da allora, è iniziato un nuovo mondo, che i ragazzi stessi – intervistati da Save The Children – hanno definito “un mondo sottosopra”.
È cominciato un mondo di lezioni fatte al computer, di compiti scaricati e inviati via mail, di gruppi di studio in videochiamata, di scuola fatta in pigiama mentre si fa colazione seduti al tavolo della cucina.
La scuola è cambiata per sempre.
I dati sulla scuola in tempo di pandemia
I dati Istat raccontano che 1 studente su 8 – il 12,3% – tra i 6 e i 17 anni, circa 850mila persone, non ha a disposizione né pc né tablet.
Nel centro Italia si sale fino a 1 minore su 5 – il 19% -.
Circa 3milioni e 100mila studenti tra i 6 e i 17 anni – il 45,4% – hanno difficoltà a seguire la didattica a distanza, per mancanza di dispositivi tecnologici in famiglia, o perché del tutto assenti o perché devono condividerli con fratelli e sorelle o perché inadeguati a supportare i programmi usati per la didattica a distanza (DAD).
A queste difficoltà si aggiunge il problema dell’assenza di spazio adeguato all’interno delle case per seguire le lezioni a distanza.
Secondo l’Istat nel 2018, in Italia, oltre 4 minori su 10 – il 41,9% – hanno vissuto in condizioni di sovraffollamento abitativo.
Ciò, in tempo di pandemia, incide molto sulla capacità di bambini e ragazzi di concentrarsi per seguire con attenzione le lezioni online e, poi, di fare i compiti.
Come stanno bambini e adolescenti?
Oltre all’apprendimento, però, bisognerebbe prestare attenzione anche alle ripercussioni emotive e psicologiche che la pandemia ha avuto e sta avendo su bambini e adolescenti, soprattutto di quelli che già vivevano in condizioni di maggior svantaggio.
È passato quasi un anno dall’inizio della pandemia. In quasi 12 mesi bambini e adolescenti sono spariti dal dibattito pubblico e dalla politica.
Si è parlato di loro solo come soggetti a rischio per la trasmissione del contagio oppure, in qualche raro caso, per la loro diretta mobilitazione a favore della riapertura delle scuole.
Non si capisce perché, dal momento che è evidente che gli effetti della pandemia graveranno sul loro futuro.
Partendo dall’esperienza della didattica a distanza, sebbene la maggioranza degli studenti la valuti positivamente (soprattutto i 14-15enni), un numero rilevante di adolescenti, quasi 4 su 10 (38%), esprime un giudizio negativo.
Più di 1 ragazzo su 3 (35%) ritiene che durante la DAD la propria preparazione scolastica sia peggiorata.
Per 7 studenti su 10 la DAD rende più complicato:
– concentrarsi durante le lezioni
– imparare nuove cose
– socializzare con i compagni
1 su 2 ritiene inoltre che sia più difficile rispettare il programma scolastico.
Dal giudizio degli studenti emerge anche come i docenti abbiano affrontato l’emergenza senza disporre di una preparazione specifica sulla didattica a distanza.
Oltre un terzo degli studenti (37%) dichiara che la totalità dei propri insegnanti ha continuato a fare lezione allo stesso identico modo di prima, trasferendo sullo schermo del pc le modalità utilizzate in aula, per il 44% solo qualcuno tra i propri docenti ha introdotto delle novità, mentre la maggior parte dei professori ha continuato a fare lezione come sempre.
Quelli che hanno cambiato, con il passaggio online, il modo di fare lezione, riguardano soprattutto, secondo i ragazzi
– la visione di video e filmati (65%)
– la messa in rete di lezioni digitali liberamente fruibili dagli studenti in modalità asincrona (49%)
– l’uso di esercizi interattivi, giochi didattici e test (40%)
Il 26% di giovani ha sperimentato la consultazione di articoli o paper on-line (26%), la divisione per gruppi (25%), lo studio di diverse materie insieme per argomenti (18%).
Le assenze e la dispersione scolastica in DAD
In media, nell’ultimo mese (lo studio si riferisce a novembre-dicembre 2020), i ragazzi intervistati hanno dichiarato di aver fatto 1,25 giorni di assenza.
Più di un ragazzo su 10 riporta un numero di assenze pari a tre o più giorni nell’ultimo mese e quasi un ragazzo su 10 (8%) ammette che rispetto allo scorso anno scolastico le assenze sono aumentate.
Problemi di connessione o copertura di rete (28%) e problemi di concentrazione durante le lezioni online (26%) sono i motivi principali che portano a non frequentare regolarmente le lezioni online.
Più di 7 ragazzi su 10 (72%) dicono di avere almeno un compagno che sta facendo più assenze rispetto allo scorso anno (+ 16-18enni: 75% vs 69% dei 14-15enni).
Più di un ragazzo su 4 (28%) afferma che dal lockdown di primavera c’è almeno un proprio compagno di classe che ha smesso completamente di frequentare le lezioni (1 su 3 al Centro, meno fra i più giovani: 24% fra 14-15enni vs 30% fra i 16-18enni).
Di questi, il 7% afferma che i compagni di scuola “dispersi” durante il lockdown sono tre o più di tre.
Alla domanda sulla principale difficoltà sperimentata nella fruizione della DAD, gli studenti hanno risposto che è dovuta soprattutto alla fatica nel concentrarsi per seguire le lezioni online (citata da quasi un ragazzo su 2, il 45%) e dai problemi tecnici dovuti alla connessione internet o copertura di rete propria o dei docenti (41 e 40% rispettivamente).
Seguono i problemi tecnici dovuti alla scarsa digitalizzazione dei docenti e la noia (33% ciascuno).
I genitori rappresentano il principale punto di riferimento in caso di problemi con la DAD (44%), seguiti dai docenti (26%).
In quasi un caso su 10 (9%), gli studenti riportano episodi di discriminazione online verso compagni che avevano problemi con la fruizione della DAD.
Per quasi un ragazzo su 10 (8%), inoltre, la fruizione della DAD avviene in stanze condivise con altri membri della famiglia.
Quasi 4 ragazzi su 10 ritengono che il periodo a casa da scuola stia avendo ripercussioni negative sulla propria capacità di studiare (37%) e sul proprio rendimento scolastico (27%).
L’impatto emotivo e psicologico della pandemia sugli adolescenti
Il 24% degli adolescenti intervistati ritiene che stare a casa stia producendo un impatto negativo anche sulla propria salute.
Quasi 2 ragazzi su 3 (63%) concordano sul fatto che quest’anno di pandemia abbia rubato loro la possibilità di vivere esperienze sentimentali importanti per qualunque giovane della loro età.
La “stanchezza” rappresenta lo stato d’animo prevalente nei giovani intervistati (31%), seguito da:
– incertezza (17%)
– preoccupazione (17%)
– irritabilità (16%)
– ansia (15%)
– disorientamento (14%)
– nervosismo (14%)
– apatia (13%)
– scoraggiamento (13%)
– esaurimento (12%)
All’estremo opposto della classifica dei sentimenti che maggiormente rappresentano lo stato d’animo degli adolescenti si trova la “rabbia”, che viene indicata solo dal 5% degli intervistati.
Mentre la maggior parte degli intervistati condivide il suo stato d’animo con genitori e amici, più di un adolescente su 5 (22%) non ha trovato il modo di parlare con nessuno del proprio stato d’animo.
Come gli adolescenti vedono il futuro
Guardando ai progetti futuri e alle conseguenze di lungo termine dell’emergenza che stiamo vivendo, più di un ragazzo su 4 (28%) afferma di aver cambiato scelta riguardo il proprio percorso di studi o professionale a seguito della pandemia: quasi 1 su 10 ha dovuto rivedere i propri piani a causa delle difficoltà economiche della propria famiglia (il 6% non andrà all’università e cercherà invece un lavoro, il 3% sta valutando di lasciare la scuola per aiutare economicamente la famiglia in difficoltà).
Il 4% ha deciso invece di iscriversi ad un corso di laurea legato alle professioni sociosanitarie, il 7% si è reso conto di quanto è importante la scienza e ha deciso che al termine delle superiori proseguirà gli studi in ambito scientifico e l’8%, a seguito della pandemia, ha scelto di approfondire l’ambito di studi legato al digitale.
Ampliando lo sguardo ai possibili scenari post vaccino, solo 1 su 4 tra i giovani intervistati pensa che tutto possa tornare come prima, 4 ragazzi su 10 si immaginano infatti un modo diverso di stare insieme, più online, e ben 1 su 4 (30% al sud) pensa che continueremo ad avere paura.
Apre una finestra su possibili scenari di un mondo futuro il 23% degli adolescenti che pensa che quest’anno di pandemia abbia mostrato che non è così importante uscire di casa perché grazie alle nuove tecnologie si può restare in contatto con le altre persone.
Di contro, l’85% degli intervistati ha capito quanto sia importante stare fisicamente insieme con gli amici, uscire, andare al parco, al bar.
Gli adolescenti e la politica
Nonostante il sentimento prevalente di “stanchezza”, gli adolescenti sono ben informati sulle tematiche al centro del dibattito politico.
Ad esempio, il Piano europeo Next Generation raccoglie molto interesse da parte dei ragazzi: ne hanno sentito parlare 7 ragazzi su 10 e quasi 2 su 5 vorrebbero ricevere maggiori informazioni al riguardo.
Interpellati sulle proprie preferenze sugli investimenti da sostenere con il Piano, gli adolescenti mostrano tutta la loro preoccupazione riguardo alla crisi economica in corso e mettono il lavoro al primo posto, sia in riferimento agli interventi a favore dei giovani che del Paese nel suo complesso (rispettivamente il 30% dei ragazzi vorrebbe finanziamenti per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, percentuale che sale al 38% al sud, e il 29% vorrebbe finanziamenti per il mondo del lavoro in generale).
Seguono la possibilità di studiare all’estero gratuitamente (17%) e la possibilità di una frequenza universitaria gratuita (17%).
Riferendosi agli investimenti per il Paese nel suo complesso, ragazzi e ragazze, oltre al lavoro, ritengono prioritario investire sulla salute (21%), sulla lotta alla povertà (19%) e sulla transizione ecologica (12%).
Una soluzione (parziale) da cui trarre esempio
In considerazione della gravità e complessità della situazione e delle ricadute nel medio e lungo periodo per il benessere e le condizioni di vita dei più giovani, Save the Children ha elaborato un programma, “Riscriviamo il Futuro”, partito a giugno 2020 e che si concluderà a settembre 2021.
La strategia del programma si impernia sui bisogni emersi dal dialogo e dal confronto diretto con bambini, adolescenti, famiglie, scuole, operatori, realtà e istituzioni locali.
Riscriviamo il Futuro ha l’obiettivo di raggiungere, in Italia, 100 mila bambini e adolescenti che vivono in contesti svantaggiati con una serie di iniziative per contrastare la povertà educativa e ridurre i rischi di dispersione scolastica.
Il programma si sviluppa per mezzo di una rete attiva sul territorio, nelle scuole e in ambienti extrascolastici e con un diretto impegno rivolto alle famiglie che affrontano gravi difficoltà materiali.
Nei primi sei mesi dall’avvio del programma (giugno-dicembre 2020) sono state raggiunte e sostenute oltre 66 mila persone, tra bambini, adolescenti, famiglie e docenti in tutta Italia.
Il programma Riscriviamo il Futuro ha due obiettivi principali: la lotta alla povertà educativa e alla dispersione scolastica, da un lato, con interventi mirati a garantire un sostegno educativo nel contesto scolastico ed extrascolastico agli studenti con maggiori difficoltà.
Dall’altro, supportare le famiglie più vulnerabili dal punto di vista socio-economico, per garantire un intervento personalizzato e calibrato sulla base dei bisogni e delle necessità specifici di ogni nucleo.
Le previsioni OCSE sul futuro
Secondo l’OCSE, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, le perdite di apprendimento derivanti dalla chiusura delle scuole avranno ripercussioni sul benessere economico degli individui e delle nazioni.
Gli adulti del futuro avranno meno competenze e saranno meno in grado di partecipare alle attività economiche e sociali.
A differenza dell’impatto economico diretto della pandemia, che sarà temporaneo, gli effetti della perdita degli apprendimenti rischiano invece di essere permanenti.
Gli impatti economici della perdita di apprendimento causata dal Covid-19
Le perdite di apprendimento dovute alla chiusura delle scuole hanno davvero effetti a lungo termine?
L’analisi di tre esempi di lunghe interruzioni scolastiche – indotte dagli scioperi, gli “anni scolastici brevi” tedeschi degli anni ‘60 e le lunghe vacanze estive – mostrano che è davvero così.
Nel 1990, ad esempio, gli insegnanti della parte vallona del Belgio scioperarono per diversi mesi, chiudendo ripetutamente quasi tutte le scuole per un massimo di sei settimane consecutive per diversi mesi.
Belot e Webbink (2010) hanno confrontato lo sviluppo degli alunni colpiti con quelli della parte fiamminga del Belgio, che non è stata interessata dalla chiusura delle scuole dovuta allo sciopero.
I risultati suggeriscono che le chiusure scolastiche hanno portato a un livello di istruzione inferiore, compreso un minore completamento dei diplomi a livelli di istruzione superiore.
L’esperienza degli “anni scolastici brevi” tedeschi
Nel dopoguerra, l’anno scolastico iniziò in primavera nella maggior parte degli stati federali tedeschi. Per uniformare la data di inizio dell’anno scolastico all’autunno a livello nazionale, nel 1966/1967 si sono svolti due brevi anni scolastici in molti stati: il primo è durato da aprile a novembre 1966, il secondo da dicembre 1966 a luglio 1967.
Nella letteratura attuale vengono analizzati gli effetti di questi brevi anni scolastici insieme a quelli
Dell’estensione della scuola dell’obbligo da otto a nove anni attuata in molti stati durante lo stesso periodo.
Sulla base dei dati tedeschi, si vede che gli studenti colpiti dai due brevi anni scolastici hanno effettivamente ricevuto un totale di quasi un anno in meno di istruzione (Hampf, 2019).
Questa perdita può essere vista anche nelle competenze a lungo termine degli alunni interessati: anche nella fascia di età compresa tra i 50 ei 60 anni, le competenze matematiche sono ancora inferiori di circa un quarto a causa dei due anni di scolarità breve (Hampf, 2019).
A lungo termine, gli anni scolastici brevi non solo hanno ridotto le competenze degli studenti ma anche il loro reddito nel mercato del lavoro. Gli studenti colpiti dagli anni scolastici brevi hanno raggiunto una media inferiore del 5% durante la vita lavorativa (Cygan-Rehm, 2018).
Conclusione
Nel complesso, l’esperienza di vari casi di continue chiusure scolastiche – dovute a scioperi, brevi anni scolastici o lunghe vacanze estive – mostra che la mancanza di istruzione ha un impatto negativo sulle opportunità a lungo termine per i bambini e gli adolescenti interessati.
La chiusura delle scuole per tempi molto prolungati ha ampliato il divario nello sviluppo delle competenze.
Di conseguenza, c’è un grande pericolo che la chiusura delle scuole aumenti ulteriormente la futura disuguaglianza nella società.
Abbiamo sviluppato il problema, adesso è il momento di cercare delle soluzioni.
Valory è una di queste grazie al servizio di HELP DESK gestito da professionisti psicologi, i progetti di orientamento 4.0 per sostenere i ragazzi durante un periodo fatto di scelte e una community di ragazzi che cercano nei social uno strumento di crescita.
Se hai domande sull’approfondimento o proposte di soluzioni contattami sui canali social di Valory, sarò felice di risponderti e di avere uno scambio di opinioni.
Oppure, scrivi le tue riflessioni, i tuoi dubbi, le tue domande nei commenti qui sotto.
Nel corso degli ultimi anni assistiamo alla tendenza di creare benessere attorno a noi: nella nostra casa, con gli amici, nel tempo libero, nelle scuole e nel mondo del lavoro. La parola “Benessere” , in particolar modo in questo periodo, è diventata la priorità per le aziende e le persone. Il significato, oggi, è più articolato, più ampio: include lo stato fisico, mentale e psicologico e tende all’armonia tra uomo e ambiente. Le nuove case vengono pensate secondo criteri di bio-architettura, con sempre più soluzioni home wellness. La scelta del cibo è più attenta, sani ed equilibrati regimi alimentari diventano i nuovi stili di vita. Le scuole valorizzano sempre più azioni volte a creare un contesto educativo mettendo al centro il bambino e il suo benessere (integrazione e adattamento sociale,autostima…). Le aziende promuovono per i loro dipendenti soluzioni di Welfare e Wellness , mettendo al centro i collaboratori e i suoi bisogni.
In questo articolo abbiamo intervistato Marianna Benatti, che, della cultura del benessere, ne ha fatto il suo lavoro e la sua passione. E’ Well-being & Employer Branding Leader in Deloitte Italia e Manager nel team Sustainabilty di Deloitte Audit&Assurance. È una delle massime esperte e Influncer in Italia sui temi di Well-being. Cosa è Well-being? “Well-being è una strategia volta a migliorare il benessere delle persone a 360° affinché queste possano essere piene di energia, sicure e consapevoli in tutti gli aspetti della loro vita. Una mente concentrata, un corpo energico e un senso di appartenenza alla comunità sono gli elementi che, operando in modo sinergico, consentono a un individuo di esprimere al meglio le proprie potenzialità, integrando la vita professionale con quella personale”.
Come responsabile di un importante progetto che guarda al benessere delle persone all’interno delle aziende, come spiega ai giovani questa nuova attenzione? La maggior parte delle aziende italiane si occupano già da anni del benessere delle persone ma raramente l’hanno mai fatto in termini strategici e olistici. Negli ultimi anni, anche in Italia, ci si è resi conto dell’importanza di avere una vera e propria strategia che guardi al benessere dell’individuo a 360 gradi perché persone felici e in salute sono più produttive, più ingaggiate, più fidelizzate, meno propense ad assentarsi per malattia. Inoltre questo ha un impatto non solo per l’azienda ma anche per il territorio e la comunità e permette di rafforzare l’impegno sociale delle aziende.
Può spiegare ai nostri VALORYERS con tre sostantivi, lo scopo principale di un progetto di well-being aziendale? Se dovessi riassumere l’obiettivo alla base di ogni nostra iniziativa utilizzerà queste 3 parole: Engagement, Risultati e Sostenibilità. Nella situazione odierna stiamo cercando di porre sempre maggiore attenzione nel mantenimento di un rapporto sano, attivo e costruttivo con le nostre persone, improntato sulla creazione di nuovi stimoli che le mantengano interessate e soprattutto ingaggiate. Investiamo nel well-being in quanto il benessere delle persone si traduce in creazione di valore che porta a migliori risultati e produttività e anche impatto sociale.
L’inserimento delle nuove generazioni nelle organizzazioni aziendali che problematiche deve superare, da entrambi i lati, per raggiungere livelli di efficienza? Più che problematiche parlerei di opportunità. Opportunità di imparare da generazioni diverse: sia persone più senior da persone più giovani che viceversa. Questo sicuramente può portare a una maggiore efficienza.
Quali sono state le difficoltà e i vantaggi che il well-being ha dovuto affrontare durante il lockdown?
L’emergenza sanitaria ha posto una maggiore attenzione sul benessere delle persone e questo sicuramente è stato un “vantaggio” per le nostre attività. La difficoltà è stata quella di ripensare alle azioni che avevamo programmato e creare un programma specifico, digitale, che fosse particolarmente utile in quel periodo. Abbiamo pensato che dovevamo puntare da un lato sull’aiutare le persone a mantenere uno stile di vita sano per aver un buon sistema immunitario e dall’altro supportarle nella nuova modalità di lavoro, completamente da remoto. Abbiamo così creato un programma per promuovere il movimento in casa, il riposo, la gestione dello stress e una corretta nutrizione. Inoltre abbiamo sviluppato dei toolkit con dei tips su come lavorare al meglio da remoto, su come gestire i team a distanza e sui virtual meeting.
Che tipo di formazione consiglierebbe ad un giovane che vuole occuparsi di well-being? Quali sono le caratteristiche fondamentali che richiede?
Attualmente non esiste in Italia una formazione specifica, essendo il well-being un ambito nuovo in continua evoluzione e studio, ma il sempre maggior interesse delle aziende verso questo nuovo campo sta portando alla creazione di corsi ad hoc che nel tempo sicuramente continueranno ad aumentare e ad affermarsi. Chi oggi vuole indirizzarsi verso questa carriera deve sicuramente possedere competenze in ambito di comunicazione interna ed esterna, una conoscenza dei concetti di CSR e sostenibilità, oltre che un interesse per temi quali nutrizione, movimento, stress management e engagement. La voglia di rimanere aggiornati su un tema così vasto e sempre in aggiornamento non deve mai mancare, insieme ad una buona dose di empatia e capacità di utilizzo dei social per poter raggiungere i propri interlocutori.
L’ambiente in cui viviamo sicuramente influenza moltissimo il nostro benessere e la nostra felicità. Probabilmente questo è un concetto scontato. Diventa però strategico poter cambiare e migliorare quello che non ci rende felici e, se vuoi farlo in grande, puoi diventare anche tu un Well-being manager, una figura professionale che guarda al futuro… come Valory!
Non perdere i consigli preziosi su come mantenersi in salute al giorno d’oggi per essere più efficienti anche al lavoro, dati da Marianna Benatti durante l’intervista rilasciata a Jessica Stella, giovane #valoryreporter.
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