“Non possiamo sapere quello che vogliamo se prima non proviamo” parola di Fulvio Giuliani
La frase del titolo è piuttosto semplice e per certi versi anche scontata, ma forse è proprio questo il motivo per cui ho deciso di metterla. A volte abbiamo così spesso gli strumenti sotto gli occhi che sembra quasi che non li avessimo mai avuti: come se non li avessimo mai visti. Credo che per poter raggiungere quello che si vuole si deve soltanto agire: provando, analizzando, valutando se continuare, o cambiare strada e proseguendo così. Per certi versi questo modus operandi si collega anche alla maniera con cui ci informiamo: solo vagliando le varie fonti possiamo comprendere veramente l’immensità del mondo e come esso funziona. L’opposto è accontentarsi, ma in molti casi -fra cui questo- non è sicuramente la soluzione.
Questo è uno dei insegnamenti che mi porto dall’intervista con Fulvio Giuliani: giornalista, conduttore e caporedattore di rtl 102.5. Prima di intervistare il dott. Giuliani credevo di apprendere semplicemente delle soluzioni a dei dubbi che mi ponevo riguardo al modo di informarsi, invece ho ricevuto un monito: un monito riguardo al proteggere i propri diritti e non avere paura di sfruttarli. Eh sì! Perché a volte ci si può addormentare, dimenticandosi delle risorse che abbiamo ereditato.
Ah sì dimenticavo io sono Diego, 15 anni studente del liceo scientifico di Udine e valory reporter.
Spero che, leggendo questo articolo, anche tu possa comprendere non soltanto le opportunità che possediamo, ma anche i doveri morali verso chi è venuto prima e, soprattutto, verso noi stessi. Mi è venuta una bella similitudine che spero ti possa aiutare durante la lettura: tutte le forme di comunicazione che possediamo oggigiorno, sono delle opere che ereditiamo da chi è venuto prima di noi. Noi siamo dei restauratori che devono prendersi cura di tali oggetti, ma allo stesso tempo siamo degli artisti, che, attingendo dal passato, creano un qualcosa di nuovo: di unico; diventando in un certo modo noi stessi un’opera: l’opera più bella.
Detto questo ti auguro buona lettura e do il via all’intervista a Fulvio Giuliani!
Prima di iniziare con le domande vorrei chiederti di presentarti, se possibile tramite un aneddoto.
Di mestiere faccio il giornalista, ma il modo in cui mi sono avvicinato a questo lavoro è stato del tutto sommato casuale. Mi è sempre piaciuto scrivere e raccontare sin da bambino. Ricordo benissimo, come se fosse ieri, quando alle scuole elementari mi fecero fare una ricerca sulla rivoluzione iraniana del 1979 dell’ayatollah khomeini e, nonostante oggigiorno sia un tema improponibile per un bambino delle scuole elementari, è un ricordo che a distanza di 40 anni porto ancora con un sorriso dentro di me. Devo dire però che pensavo di fare tutt’altro. Per questioni di eredità familiare sarei dovuto diventare un avvocato, ma in realtà -come scrivevo all’inizio- accompagnando casualmente un amico ad un provino per una radio di Napoli, mi sono innamorato in particolar modo di essa, e da lì ho cominciato ad entrare nel mondo della radio e del giornalismo. Alla fine tutto si è susseguito naturalmente: è un costante sviluppo composto da tanti passettini alla volta: dove ho incontrato molte situazioni sia difficili, ma soprattutto stimolanti. Ancora oggi dopo “molti passi” mi ritrovo qui, e continuerò sicuramente ancora finché ne avrò le forze: perché questo è un tipo di lavoro dove l’approdo non è assolutamente la pensione!
Dopo aver visto il tuo Ted talk, mi è rimasto molto impresso il tuo concetto di non fermarsi mai al primo risultato di ricerca, e anche al fatto che tutti noi possediamo nel nostro telefono cellulare una quantità di informazioni, paragonabile alla biblioteca di Alessandria d’Egitto. Ti vorrei chiedere se tu potessi spiegare il perché è così importante informarsi in modo variegato, dicendo anche quali sono i vantaggi di questo tipo di informazione e quali sono gli svantaggi di non informarsi in questo modo: perché i miei coetanei, ma in generale tutti, possano fare propri questi concetti, non lasciandoli soltanto come delle belle parole.
Innanzitutto, bisogna dire che questo è un aspetto cruciale della mia vita, prima ancora che della mia professione. Per me, ma in generale per tutti è vita. Prima ti ho fatto l’esempio di quella ricerca delle scuole elementari. Tu puoi immaginare che strumenti io avessi all’epoca, fondamentalmente: i giornali, i racconti di mamma e papà e il telegiornale, basta. Oggi al contrario, chiunque ha la famosa biblioteca di Alessandria dell’esempio che feci sul palco di Ferrara al Ted talk, ed è una fortuna che ci dobbiamo saper meritare. Perché è vero che è un’opportunità incredibile, ma sta a noi saperla sfruttare sapientemente. Il motivo per cui dovremmo farlo è perché è l’unico modo per provare a capire il mondo che ci circonda. Fermarsi al primo esito di una ricerca, significa rifiutarsi di capire: accontentandosi della via talvolta più comoda. Poi magari il primo risultato di una ricerca è quello più consono, più ampio e anche più soddisfacente, ma non è assolutamente detto: questo lo devo constatare soltanto leggendo ed informandomi sempre di più. L’alternativa è credere al primo che passa, ed è un’alternativa pericolosissima sia nella vita sociale: quindi come comunità, ma anche a livello personale. Perché se io sono disposto a credere alla prima persona che incontro per strada, essa potrebbe non essere la persona giusta. Darci completamente ad una persona che potenzialmente potrebbe non essere quella giusta è estremamente pericoloso. È una forma mentis che prima acquisiamo e meglio è. Perché poi non la si abbandona più, visto che ci si è stati abituati all’idea: di far ricerca, di studiare, di non accontentarsi mai, e questo alla lunga porta a imparare sempre di più.
Rimanendo nella similitudine con la biblioteca di Alessandria, ho riscontrato questi due possibili rischi: da un lato, cercare di comprendere tante informazioni attingendo a soltanto un libro: quindi rischiando la ipersemplificazione, e dall’altro rimanere intimoriti dalla quantità di libri riguardo un argomento o una notizia. Dal tuo punto di vista, come può un giovane “districarsi” in questa vastità di fonti?
La complessità fa paura ed è normale che faccia paura. La storia ci insegna che spesso alle masse sono state vendute come verità assolute delle costruzioni assolutamente fantasiose, talvolta anche con dalle finalità orrende, perché facili da spiegare; ed è ovvio che è molto più facile tendere le persone con una visione semplicistica della realtà: prima sicuramente più di oggi. Oggigiorno comunque quella stessa biblioteca di Alessandria nelle nostre tasche impedisce l’organizzare le masse con relativa facilità, come il novecento c’è l’ha tragicamente insegnato. Però per la singola persona è ovvio che è più comodo, più facile e più suadente affidarsi alla spiegazione semplice in 280 caratteri di un tweet: perché costa meno fatica, e nessuno ama faticare. La complessità e gli scaffali zeppi di libri mettono ciascuno di noi davanti ad una sfida; ed è certamente molto più complesso, ma la soddisfazione di: conoscere di più, di aver sentito diverse campane, diversi pareri, diverse visioni anche della realtà, ripaga totalmente lo sforzo . Poi sarà sempre lasciato a noi il libero arbitrio di scegliere la versione a parer nostro più vicina alla realtà. Ovviamente a 15 anni si è nell’età adolescenziale, si è nell’età dei principi assoluti ed è giusto che sia così. Si sa: si ama come non si è mai amato, si crede come non si è mai creduto. Col passare degli anni però le granitiche certezze vengono meno, ma dall’altro lato si acquisisce sicurezza e si scopre che il mondo è meravigliosamente vario. Quello che non viene neanche considerato magari a vent’anni, affascina terribilmente a 40, ma questa è una conquista. Il poter fare cose differenti, il non sapere necessariamente dove andremo, che tipo di lavoro faremo è una conquista dei nostri tempi. Già i nostri genitori avevano dei binari molto più definiti. C’era più sicurezza, c’era meno dubbio: nella loro fase di formazione e nei primi anni professionali sapevano dove sarebbero andati a parare. Io credo però, che oggi ci siano delle opportunità meravigliose. A tutt’oggi per quanto io abbia 50 anni, ho l’assoluta certezza che da qui alla mia vita professionale futura arriveranno cose talmente nuove, che oggi semplicemente non esistono: lavori che oggi non ci sono, forme di comunicazione che non esistono, e questa è un’opportunità incredibilmente meravigliosa, che semplicemente 30 anni fa non c’era!
I social in questi anni hanno formato delle connessioni sempre più profonde nelle nostre vite: sia a livello privato, ma che a livello lavorativo. Ecco, portando te come esempio con il tuo format “60 seconds”, vorrei chiederti come possono anche i giovani utilizzare queste piattaforme: non soltanto come mezzo di intrattenimento, ma anche come strumento per creare contenuto.
Resta a voi: è molto semplice. Se siamo abbastanza curiosi e interessati al mondo, da osservare i social con occhio critico -quindi- divertirsi e ci mancherebbe altro, ma usarli anche per conoscere un po’ di più, scegliendo le persone da seguire che possono darci dei contenuti. Da tutto questo potrebbe venirci voglia di sperimentare qualcosa in prima persona. Questo è quello che ho fatto, non ho inventato nulla di spettacolare: ho semplicemente dato continuità al mio lavoro di sempre in radio anche attraverso i social. Si chiama continuità nella differenza: la differenza c’è anche nei differenti metodi di espressione. Nessuno di voi ha dei paletti che non può superare. Potete provare negli ambiti che vi possono interessare maggiormente, che siano: la musica, che sia un intrattenimento, che sia la lettura, che sia la scrittura. Potete fare quello che volete: era quello che dicevo prima: i limiti ce li poniamo, ma non ci sono. Scegliamo noi quale sarà il nostro limite espressivo. Certo se uno si preoccupa di non avere sufficienti followers forse parte male. Perché se quella è l’unità di misura, è piuttosto difficile iniziare, visto che il primo passo non potrà avvenire con 200 mila persona che ti seguono. Non avviene e non può avvenire. L’ordine di misura non può essere quello, perché nell’universo social esiste questo specchietto delle allodole riguardante il numero di followers, che è pur importante per chi ne fa un uso professionale, ma alla vostra età stiamo sperimentando, stiamo conoscendo: quello deve essere l’ultimo dei problemi. L’ultimo: non il penultimo, l’ultimo! La vera esigenza deve essere sperimentarsi, e poi chissà, magari trovate un lavoro, magari trovate il vostro vero ambito di realizzazione: semplicemente noi non lo sappiamo, non lo possiamo sapere prima di fare.
In un’intervista avevi detto che la dimensione del racconto può rendere anche i concetti più difficili semplici: con l’avvento dei social come pensi che si svilupperà l’abilità del racconto nel futuro?
Io credo molto: credo molto perché il racconto è in noi, e nel nostro dna, è un qualcosa che c’è sempre stato e sempre ci sarà. Certamente in forme diverse, ma la sostanza non cambia. Da quando i nostri avi affondano le nostre radici nella Grecia e nella Roma antica: da allora, la dimensione del racconto soprattutto nel mondo greco, seppur con strumenti radicalmente diversi e seppur siano passati tremila o quattromila anni a seconda dei casi,resta quella. È ovvio che è cambiato tutto, ma la dimensione del racconto, la dimensione del tramandare agli altri: tradizioni, racconti, la nostra memoria, non cambia. Semplicemente adesso abbiamo degli strumenti di incredibile potenza. Oggi non ci mettiamo più attorno ad un fuoco ad ascoltare i racconti dell’epica, ma invece ci mettiamo davanti a un fuoco ideale: digitale. Ci mettiamo ad ascoltare una persona, che ci affascina con la sua capacità di portarci per mano lungo i percorsi della storia, o della tecnologia, o del futuro. Il racconto è lì, il racconto non cesserà mai di esistere: perché è connaturato nell’uomo. Un uomo che non dovesse più avere interessi o capacità a raccontare della propria storia, della storia di chi è venuto prima, o di chi verrà dopo di lui, sarebbe un uomo pericolosamente vicino ad una macchina: magari capacissima di svolgere calcoli per noi inimmaginabili, ma a tutt’oggi non capace di generare l’opera di intelletto.
“Un adulto che non gioca è un adulto perso”, tue parole. Ecco, con la tua esperienza, che consiglio daresti a un giovane perché non si ritrovi nell’età adulta “sperduto”?
Più che perso, è un adulto che ha dimenticato la sua parte bambina, ed è sempre un gravissimo errore. Io ho il terrore delle persone che si prendono sul serio e delle persone che ritengono non solo di avere tutte le risposte, ma di essere molto seriose. Le persone di maggiore qualità che ho incontrato nella mia vita personale e professionale, sono quasi sempre persone molto profonde, ma allo stesso tempo con una capacità di leggerezza meravigliosa, con una capacità di ironizzare su se stessi, sulle proprie debolezze, sugli errori e perché no anche con la capacità di giocare. La dimensione del gioco è fondamentale: perché in essa ci si riconnette con la parte bambina, con la parte più disposta a meravigliarsi. Quando noi smettiamo di meravigliarci siamo finiti. Perché diventiamo aridi: non siamo più disposti al nuovo, ma finché ci meraviglieremo, saremo sempre disposti a divertirci, a imparare e a fare un passo in più. In caso contrario, saremo condannati a ripetere sempre le stesse cose.
Se potessi incontrare il te stesso quindicenne che cosa gli diresti?
Di avere meno paura: perché quella è l’età anche di tantissime paure. Ho una figlia della tua età e quindi credo che ci sia anche in lei, come in tutti i quindicenni, questa dimensione della paura, dell’ignoto, del non sapere dove si andrà a parare. Per voi in una forma diversa rispetto a quella che abbiamo vissuto noi: noi avevamo dei genitori molto consapevoli -come accennato in precedenza- della strada da indicare ai propri figli, sempre con le massime e migliori intenzioni, ma oggi questa dimensione si è un po’ persa; e non è che noi, come genitori non lo sappiamo, ma è soltanto che il mondo è cambiato in modo molto più fluido rispetto prima. Le strade sono molto più difficili da individuare, e quindi noi genitori dobbiamo dire più cose, ma dai contorni più sfumati; mentre prima se ne potevano dirne di meno ma più definite. Quindi quello che direi al me di 35 anni fa è: “Abbi meno paura, non ti preoccupare, perché gli errori che certamente commetterai sono fondamentali per capire quale strada vorrai intraprendere.” Questa è l’unica cosa che mi permetterei di dire al me di 35 anni fa, che peraltro si è divertito molto ed è stato che estremamente fortunato: perché ha avuto un’adolescenza di incredibile bellezza.
Infine ti vorrei chiedere di lanciare un messaggio a tutta community di Valory.
Il messaggio è: insistere, continuate a fare quello che state facendo,mettetevi alla prova, rischiate, sbagliate sbagliate ancora. Non abbiate paura di cambiare strada, perché attraverso l’errore capirete -lo dicevo prima e lo ripeto- quale sia la strada più consona, o meno, alle vostre caratteristiche. Non abbiate paura di esplorare: perché questa è l’età in cui potete fare quello che volete: potete sperimentare e potete divertirvi; soprattutto ascoltate voi stessi: è difficilissimo, poi col passare degli anni lo facciamo sempre di più perché è tipico dell’uomo e della donna che crescono. Non cominciate per nessun motivo a raccontarvi bugie per comodità: convincendovi che quella è la cosa giusta da fare perché la vita, le responsabilità e gli impegni vi costringono. Non fatelo per nessun motivo! Meno storie vi racconterete ora, meno ve ne racconterete un domani, e vi assicuro che se fate così vi divertirete molto, ma molto di più. Iniziate a scegliere anche i maestri: scegliete le persone a cui dare fiducia e quali ascoltare: perché già a questa età capite a pelle quali sono le persone che meritano la vostra fiducia e quelle che non la meritano, e la vita è vostra!
Nell’intervista si è anche parlato dell’abilità del racconto, e sono proprio convinto che Fulvio Giuliani nelle sue risposte ne abbia mostrato un chiaro esempio: ho percepito un grande spinta dentro di lui. Si nota l’amore con cui parla della radio, ma più in generale riesco a vedere il bambino che è dentro in lui e di cui mi ha saputo raccontare. Mi ritengo fortunato ad aver conosciuto una tale persona, che prima di tutti i titoli conferitogli, per me è innanzitutto una persona viva e vera: non solo con il corpo, ma soprattutto con il cuore e la mente; e non per nulla scontato incontrare una persona “realmente vera” oggigiorno.
Quello che vorrei trasmetterti con tutto me stesso è la chiamata all’azione: la chiamata a vivere che ho sentito. Come ho detto all’inizio, è importante ricordarsi degli strumenti e delle possibilità che oggi possediamo, imparando anche a ringraziare per questo; ma altrettanto importante è sporcarsi le mani creando: l’immaginazione ci è stata donata pur per un motivo! Non vorrei comunque trattenerti troppo con parole e concetti troppo aulici e lontani. Il dott. Giuliani ha già detto tutto. Vorrei soltanto provare a condividerti un po’ dell’energia che ora provo, ma credo che anche tu dopo la lettura ne abbia già fatto il pieno. Che dire: sperimentate, provate, sbagliate, ascoltate voi stessi, e la vita è vostra!
Se sei curioso e hai voglia di sentire l’energia di Fulvio Giuliani, puoi vedere la video intervista su Valory app.
Diego Patrizio